giovedì 13 ottobre 2016

La foresta di Aokigahara: quel funesto “Mare di alberi” a metà tra la vita e la morte.

Cari Nihonjini, in questi giorni, per qualche motivo non meglio identificato, il mio amore per le foreste giapponesi si è ridestato più forte che mai. Bè, ad essere sincera, il motivo c’è eccome e non posso che imputare la responsabilità all’enorme quantità di film d’animazione e le miriadi di foto di magnifiche foreste giapponesi sparse per il web in cui, ultimamente, mi è capitato di imbattermi. Natura selvatica dai toni surreali, avvolta in una tenue foschia che rende lo scenario quasi mistico, un luogo che non è percepito come luogo, ma più come un’entità dal cuore pulsante, legata ad una quantità inimmaginabile di miti e leggende, di mostri e divinità, di magia e realtà. Eppure, non tutto è oro quello che luccica, perché nell’immaginario collettivo giapponese la foresta non è percepita solamente come un universo intriso di misticismo, ma anche un mondo contraddittorio, come lo è poi la natura stessa della cultura e dell’identità giapponesi. Alla foresta sono legati sì simboli di vita, ma anche simboli di morte, e nessun posto come Aokigahara potrebbe essere più esemplificativo in tal proposito.
Nihonjini, avete mai sentito parlare di Aokigahara? Forse a tanti di voi questo nome non dice nulla, proprio come non lo diceva a me prima che m’imbattessi nel libro Kuroi Jukai (“Nero mare di alberi”), scritto da Seichō Matsumoto.
Quando facevo ricerca a Tōkyō, parte dei miei studi era dedicata alle ragioni per le quali tanti giovani commettono suicidio in Giappone. È stato navigando tra i diversi siti dedicati all’argomento che mi è capitato per caso di trovarlo, ed il “Mare di Alberi” non era altro che uno degli pseudonimi – se così potremmo definirlo – per identificare proprio la misteriosa foresta di Aokigahara. Misteriosa ed anche molto più che inquietante, roba che a confronto la Strega di Blair è una roba per poppanti. Ma siccome, citando un mio amico giappico, sono una kowai onna (“donna spaventosa”), non potevo che appassionarmene a tal punto che andare ad Aokigahara è diventato uno dei sogni proibiti della mia vita.




Cosa rende Aokigahara un posto tanto interessante? Oh, bè, dipende senz’altro dai gusti e dal fegato, ma di certo, come avrete già intuito, la sua particolarità non deriva tanto dalla presenza di fastosi templi, mastodontiche statue del Buddha o mirabolanti attrazioni estreme, bensì dalle spaventose e tristi storie di cui la foresta è palcoscenico da molti, moltissimi anni. Perché Aokigahara è uno dei posti prediletti dai giapponesi per togliersi la vita.
Prediletti, esatto, non avete capito male.
No, non sto certamente cercando di fare humor nero su una questione tanto delicata come quella del suicidio, ma non basterebbe un libro per poter spiegare le ragioni per le quali in Giappone la morte possa arrivare a fare persino “tendenza”. A tal punto che esistono siti internet in cui ci si iscrive apposta per decidere assieme ad altri aspiranti suicidi il luogo, l’orario ed il modo in cui avverrà la propria fine (shinjū, o “patti suicidi”).
Sì, mi rendo conto non sia proprio l’argomento più felice di cui parlare e che questo aspetto della società giapponese sia difficile da comprendere, eppure, per quanto l’idea possa suscitare orrore e ribrezzo, anche il suicidio fa parte di tutti quegli elementi che rendono il Giappone il paese che è. Mi piace molto definire il Giappone un amante sì passionale, ma con mille scheletri nell’armadio, in grado di regalare sempre intense emozioni, per quanto macabre alcune di esse possano essere. Ed Aokigahara è di certo annoverabile tra i suoi misteri più raccapriccianti.
La foresta cresce alle pendici nord-ovest del Monte Fuji, a circa due ore di treno da Tōkyō, ed è stata soprannominata proprio “Mare di Alberi” perché così fitta che alcuni dei cadaveri di coloro che l’hanno scelta quale luogo della propria fine si dice siano stati ritrovati solo dopo anni di ricerche. In effetti, la foresta è costantemente battuta da squadre investigative della polizia, che controllano periodicamente il posto per cercare – e non per assicurarsi non ci siano, purtroppo – nuovi corpi, perché per quanto possa essere triste, sono moltissimi i giapponesi che ogni anno decidono di suicidarsi ad Aokigahara. Basti pensare che al suo ingresso è situato il cartello nell’immagine di seguito.



La vita è un dono prezioso dei tuoi genitori. Con calma, ripensa a loro, ai tuoi fratelli, ai tuoi figli. Non affliggerti in solitudine, ma confidati, prima di tutto.”

Ma forse, più creepy della foresta in sé e di quello che accade al suo interno è il significativo numero di turisti che, in ogni periodo dell’anno, si avventura tra i suoi disordinati sentieri per andare a caccia di ossa o rimasugli di cadaveri.
Bè, a dire il vero, la sua fama non dipende solo da questo. Nonostante il suo infelice background, infatti, Aokigahara nasconde meraviglie da mozzare il fiato, come grotte e caverne anticamente formatesi grazie a passaggi di lava ed eruzioni vulcaniche, ad esempio, o la straordinaria biodiversità del suo ambiente, che ospita varie specie di piante particolari, come il rarissimo monotropastrum humile.




Non è così strano, quindi, che si conti un elevato numero di visitatori, ma certo è che lo spirito avventuriero della maggior parte del turismo della foresta dipenda soprattutto da motivazioni che trascendono la semplice avventurosa scarpinata in mezzo alla natura selvaggia e riguardano molto di più la sfera esoterica. Sono tante le dicerie che vedono Aokigahara come protagonista e moltissimi i giapponesi che affermano di aver incontrato yūrei (“fantasmi”, meglio “spiriti inquieti”) o vissuto esperienze paranormali nelle sue vicinanze. Avevo letto, una volta, di un giovane sulla via del ritorno che, assieme ad un amico, aveva adocchiato una strana donna addentrarsi nella foresta a notte fonda. Forse non si trattava davvero di uno spirito, forse si trattava solo di suggestione, ma questo non aiuta certamente a rendere l’atmosfera di quel posto meno sinistra.
Un’altra leggenda vuole, poi, che chiunque si avventuri ad Aokigahara sia destinato a non far più ritorno. In effetti, per gli aspiranti sucidi è ciò che succede davvero, ma la diceria deriva pure forse dal reale il pericolo di smarrirsi tra gli alberi in cui gli avventurieri potrebbero incappare spostandosi dai percorsi prestabiliti. Sono molti quelli che si perdono nella foresta, quindi, Nihonjini, se vi trovate a fare un giro per Aokigahara, non scordate di contrassegnare il vostro percorso con pezzi di nastro adesivo od altri oggetti.
Mh? Dite che non ci andreste mai e che è spaventoso io abbia voglia di andare a visitare un posto del genere? Bè, forse non avete tutti i torti, eppure il desiderio di conoscenza, il bisogno di documentarsi, è spesso più forte persino della paura e dell’etica. Credo che per trovare risposte al mio quesito sul cos’è che spinge così tante persone a compiere un gesto tanto estremo come quello di togliersi la vita, ci sia bisogno di vedere coi propri occhi la porta tra la vita e la morte, e di toccarla con mano, di viverla sulla propria pelle. La fine è certo spaventosa, è un tabù in molte credenze, ma fa comunque parte del ciclo naturale della vita, per quanto il distacco da una persona amata possa essere devastante. Posti come Aokigahara ci ricordano di quanto siamo minuscoli di fronte all’eternità e di come sia importante, talvolta, riflettere sul senso della propria esistenza.


lunedì 3 ottobre 2016

Friday night in Tōkyō! E stasera che ca…pperi faccio??

Cari Nihonjini, vi è mai capitato di essere in viaggio in un paese straniero e non avere la più pallida idea di cosa fare di bello la sera, non conoscendo il posto e non sapendo quali sono le cose fighe che gli abitanti del luogo amano fare per scampare alla monotonia della routine? Ecco, a me questa cosa è capitata ben più di una volta, soprattutto in terra nipponica, nonostante le millemila cose che, in realtà, ci sarebbero da fare, soprattutto se vi trovate nella mastodontica capitale. Per fortuna, non ero sola nella mia avventura alla ricerca di un po’ di svago tra lavoro ed impegni universitari, così grazie a mia moglie Riku, alla mia amica Aiko ed alle loro immense conoscenze nel campo dell’intrattenimento edochiano, ho avuto modo di scoprire che Tōkyō possiede più risorse di quante non ci si aspetti, e che è in grado di stupire con la sua fantasia e le sue idee geniali! La prima volta che sono andata in giro per Tōkyō con l’espertissima Aiko mi ha, infatti, trascinata nel magico universo dei locali a tema giapponesi, quella che è poi diventata per me una specie di inusuale droga della quale non ho più potuto fare a meno. Ed essendo entrambe appassionate di visual kei e gothic lolita, il primo locale a tema che ho visitato nella mia vita non poteva che essere il Christon di Shinjuku, in cui ho portato a trascorrere piacevoli – ed anche un po’ inquietanti – serate a più amiche e ragazzi di quanti non ne abbia portati in vita mia alla pizzeria sotto casa! Cos’ha di speciale il Christon per avermi letteralmente conquistata? Bè, per un’amante del gothic è presto detto: l’interno sembra quello di una chiesa sconsacrata! E chi non pensa sia una figata pazzesca, è perché sicuramente non ha un’anima.
Pareti affrescate con immagini sacre, lapidi, teschi ed altari all’ingresso, poltrone sfarzose, tende di velluto rosso e lampadari cosparsi di ragnatele all’interno, una bambola impiccata all’ingresso dei bagni; trovandomi immersa in un ambiente in grado di offrire tutto questo, mi sono amaramente pentita di non aver indossato il vestito loli che tengo in serbo per le occasioni speciali! La musica in sottofondo, perfetta per entrare nel mood giusto, sembrava una di quelle melodie macabre che i vampiri spesso suonano nei film, ma la parte che mi ha letteralmente fatta sbarellare è stato il menù, con una lista di drink dai nomi particolari, come Dark Baider, ed il… ghiaccio fosforescente!


Decisamente uno dei miei locali esoterici preferiti di tutta Tōkyō, anche se non sarà mai strabiliante come quello in cui mi ha trascinato, invece, Riku: il Vampire Cafe di Ginza! Ecco, dovete sapere che il Vampire Cafe ha pressappoco l’aspetto della mia casa ideale, frequentata dai miei amici ideali, con la mia musica ideale. All’ingresso, parti anatomiche dall’aspetto decisamente realistico sono poste di fianco alle poltrone d’attesa, mentre sul pavimento è dipinta una sfilza di cellule ematiche. L’interno, che è il trionfo della morte, è illuminato con vere e proprie candele, grazie alle quali i privé, disposti in circolo attorno alla sala e da questa separati con un tendaggio in velluto rosso, riemergono dall’oscurità che tutt’attorno impera. Una bara, posta di fronte ad un grosso ed antico specchio e ricoperta di rose rosse, ci ricorda che siamo esseri mortali, a differenza dell’affascinante, misterioso e spaventosamente bono Vampire Rose, che si occupa di servire ai tavoli, assieme alla vampira proprietaria del locale. Inutile, poi, stare a dirvi quanto siano meravigliosi i piatti e i drink che vengono serviti in tavola! Vi basta dare un’occhiata qui sotto al buonissimo tiramisù-cimitero, che mi sono strafogata nonostante stessi esplodendo per il troppo cibo, ed al delicatissimo White Virgin, di cui mi sono praticamente drogata a profusione ogni volta che sono ritornata in quel macabro ed affascinante posto!


Discostandoci dal tema esoterico, ma restando comunque ancora nell’universo dark, il mio terzo locale a tema preferito è sicuramente il Lock Up, in particolare quello di Ueno! A tema prigione, il Lock Up è uno spasso già prima di entrare, perché l’ingresso che non è così semplice da trovare: ricordo che la prima volta sono scesa nel cunicolo sotterraneo, in cui c’era un mostro orrendo ad accogliere me e la mia amica, sono quasi diventata scema a capire dove cavolo si bussava per farci aprire, e m’è quasi preso un infarto quando è improvvisamente suonata una sirena prima che una ragazza vestita da poliziotta arrivasse a ammanettarci e condurci alla nostra cella! I tavoli sono, come potrete immaginare, piccole carceri, illuminate da luci fioche ed addobbate con quadri a dir poco inquietanti. Alcune hanno delle piccole finestrelle, da cui ogni tanto possono spuntare delle mani mostruose per toccarti i capelli, mentre alle volte può capitare di avvertire una folata di gelo improvvisa, perché probabilmente… un fantasma ti è appena passato di fianco! Il menù credo fosse il più divertente tra tutti quelli dei locali visitati, con nomi altisonanti del tipo “polpette del giudizio” (così piccanti che, mamma mia, prima m’è mancato il fiato e poi ho avuto come l’impressione di star per sputare fuoco), mentre è stato un vero spasso crearmi da sola i drink che ho bevuto, con fialette e contagocce che sembravano gli strumenti da laboratorio di uno scienziato pazzo. Un posto in cui sono tornata spessissimo perché, andiamo, non è il solito locale dove ti siedi a strafogarti il tuo bel panino con la porchetta e te ne torni poi a casa come se niente fosse!

In quarta posizione ci schiaffo, invece, il mio locale a tema nerd preferito tra i miei locali a tema nerd preferiti: l’Eorzea Cafe di Akihabara. E so già che i fan di Final Fantasy XIV staranno urlando e strappandosi i capelli di testa come feci io quando, all’ingresso, mi trovai di fianco ad Kyactus gigante! Diversamente dagli altri locali, in cui si entra alla maniera tradizionale, l’Eorzea può essere visitato unicamente su prenotazione e si può usufruire della sala per due sole ore. È un grande sbatti, soprattutto se si hanno difficoltà col giapponese, ma vale davvero la pena visitarlo almeno una volta nella vita, se siete come me fan della saga. L’interno imita alla perfezione il magico mondo di Eorzea, con moguri svolazzanti, vetrate colorate, una mappa del continente, armi e quadri raffiguranti i personaggi di rilievo della landa finalfantasiana. Al centro della sala c’è una postazione computer, in cui è possibile collegarsi col proprio account e continuare una partita lasciata precedentemente in sospeso. Il menù, ovviamente, è pieno di cibi e drink che richiamano razze, classi e bestiario della saga, ma la cosa più fantasmagorica è che, con ogni pezzo ordinato, si riceve un sottobicchiere raffigurante uno spirito d’invocazione, tra Shiva, Garuda, Bahamut, e tanti altri ancora! Cioè, non è una roba pazzesca? Credo di aver speso all’Eorzea Cafe interi patrimoni, e pazienza per la conseguente povertà – si campa una volta sola e le occasioni vanno sfruttate fino a che se ne ha la possibilità!


Infine, in ultimo – ma non per la minore importanza – devo troppo menzionare un altro locale a tema per appassionati di videogiochi che ho amato alla follia: il Capcom Bar di Shinjiku. Anche questo locale si può visitare solo previa prenotazione, ma anche in questo caso è valso ovviamente la pena lo sbatti per procurarsi i biglietti. L’interno del locale è il trionfo del modellismo dedicato all’universo Capcom, e tra Devil May Cry, Resident Evil e Basara ce n’è davvero per tutti i gusti! Il menù è interamente dedicato ai personaggi dei diversi giochi sviluppati dalla famigerata casa di produzione, e la cosa che ho trovato più emozionante è stato il fatto che, ad ogni ordinazione, il cameriere che serviva al tavolo citava una delle frasi famose del personaggio a cui il drink o la pietanza era dedicata! Immaginate quindi la mia voglia di saltargli addosso quando ha cominciato ad imitare il mio amato Leon S. Kennedy – a momenti rischiavo di finire in prigione per ninfomania.


È, dunque, questa, cari Nihonjini, la top five dei miei locali a tema preferiti sparsi in territorio edochiano! Ovviamente, oltre a questi ce ne sono moltissimi altri e davvero per tutti gli hobby e le passioni, ma se siete amanti come me di roba strana, inquietante, misteriosa e nerdacchiosa, mi concederete che almeno una volta nella vita posti come questi andrebbero visitati per non rischiare di pentirsene un giorno sul letto di morte.
E con questa perla di scemenza finale, vi lascio anche questa volta invitandovi a scrivermi o commentare, se aveste qualcosa da raccontare!
Dal paese di Dareka anche questa volta è tutto.

Mata ne!

lunedì 26 settembre 2016

Non scordare: camminiamo sopra l’inferno, ammirando i fiori

Cari Nihonjini, credo che quello che sto per scrivere sarà probabilmente l’articolo meno stupido e divertente della storia delle mie pubblicazioni, ma avevo assolutamente bisogno di condividere con qualcuno che ami il Giappone almeno quanto lo amo io quello che provo per la cultura di questo meraviglioso popolo.
Ieri mi sono imbattuta casualmente – potremmo anche dire fortunatamente – in un film d’animazione che mi ha lasciata davvero senza fiato e che mi sento di consigliare a tutti gli amanti del folklore nipponico, ossia Hotarubi no mori e. Perché questo film mi è piaciuto così tanto? Bè, perché mi ha riportato alla mente una frase che una volta una vecchietta giapponese con cui ebbi il piacere di trascorrere una tranquilla serata davanti ad un buon nabe bollente, nella piccola città di Fuminosato (prefettura di Ōsaka), mi disse, ossia “i fiori sono belli perché cadono”.
Non è stato facile comprendere il significato di questa frase. Bisogna possedere una sensibilità, una bellezza, una profondità d’animo fuori dal comune per arrivare a capire cosa la vecchietta cercasse di dire con quelle parole, che alla nostra cultura occidentale sembrano così strane e distanti. Mi ci è voluto un po’ per rimettere assieme i pezzi e trovare la mia risposta, e non esiste mezzo migliore di questa pellicola, che è pura poesia, per potervela esplicare al meglio.
Hotarubi no mori e è la storia di Hotaru, una studentessa del liceo, che all’età di sei anni, incuriosita dalle leggende su un dio della montagna, si era smarrita nella foresta dove questi si narrava abitasse, e di Gin, uno spirito, che quella volta l’aveva trovata e portata in salvo. Tra i due si consolida presto una tacita promessa: Hotaru tornerà da Gin ogni estate nello stesso punto in cui la prima volta si sono lasciati, ma si impegnerà a non toccare mai lo spirito che altrimenti, a causa di un incantesimo, finirebbe col dissolversi.
Forse, in quanto amanti del Giappone, sarebbe superfluo farvi notare quanti elementi dell’universo filosofico shintoista siano presenti in questa trama, a partire dal setting, che già da sé denota uno sconfinato amore per la natura, entro la quale si nascondono essenze, maligne e benigne, che coesistono con l’essere umano, creando un equilibrio perfetto tra il mondo empirico e quello magico dell’ultraterreno. La montagna, simbolo del passaggio tra la vita e la morte, prova iniziatica per l’ascesa ad un’esistenza nuova e trascendentale, intricato mandala che ogni uomo, prima o poi, dovrà sforzarsi di interpretare alla fine della vita, fa da sfondo all’intera vicenda, nel suo ruolo di osservatrice silenziosa e di incantata fautrice, madre benevola di tutte quelle forze mistiche e sovrannaturali che sono gli spiriti della foresta, le sue amate creature. Questi, come la loro matrice, osservano i vivi da lontano, nel silenzio, senza mai superare la barriera che li divide dalla vita propriamente detta, abitando un universo tutto loro, che non è così tanto distante da quello degli esseri umani. Danzano, festeggiano l’estate, passeggiano tra bancarelle piene di dolci fatati, maschere, girandole, ridono in compagnia, imitando fin nei minimi dettagli quella società umana a cui forse un tempo anche loro erano appartenuti. Tra loro c’è Gin, che non è spirito e non è umano. È qualcosa che sta nel mezzo, che rappresenta la bellezza dell’esistenza, tanto straordinaria, quanto effimera, poiché al minimo alito di vento rischia di spezzarsi, di essere spazzata via per sempre. Gin, come un fiore, rappresenta il mistero ed il fascino di quel soffio che anima tutte le cose del creato, così potente, eppure così tanto fragile da rischiare di finire in un istante, per una disattenzione, per un semplice tocco. Governato da forze immense rispetto all’insignificanza dell’elemento umano, il suo significato è sfuggente, forse impossibile da interpretare, almeno fino a che, con la fine della vita, tornando a far parte di quel tutto che è ciclo dell’eternità, diverremo anche noi parte stessa dei suoi misteri.
Gin, dunque, come metafora di tutto ciò che è puro ed evanescente, di tutto ciò che è bello e destinato a scomparire nel nulla.
Confrontandola con un contesto simile, la frase di quella vecchietta non appare neanche più così tanto astrusa, se proviamo a spogliarci per un attimo della nostra visione pessimistica della fine. Anzi, non vi sembra invece che calzi proprio a pennello?
Nella nostra cultura, siamo abituati a pensare che i fiori siano belli solo quando sono in rigoglio, che la loro caduta sia metafora di morte e marcescenza – basti pensare alla rosa ne La Bella e la Bestia che, quando sarà appassita, segnerà la fine di tutto, condannando Belle al tormento di aver perso ciò che ama e non è riuscita a difendere. Vorremmo vederli esistere per sempre, lottiamo per tenerli disperatamente in vita, sopraffatti dal terrore che prima o poi svaniranno nell’oblio, e siamo così tanto impegnati a preoccuparci della fine da dimenticare di godere del loro splendore quando ancora ne abbiamo l’occasione, sprecando così il nostro tempo ad illuderci di quanto sarebbe bello se soltanto potessero brillare in eterno.
Nell’ottica giapponese, l’ora è adesso, perché non esiste nulla di immutabile, e i momenti lasciati sono ormai irrecuperabili. Le ferite, le perdite, le lacrime fanno certo paura, ma rappresentano anche cicatrici da mostrare con orgoglio, da valorizzare, da cospargere d’oro, come si fa con le crepe delle ciotole incrinate, usurate dal tempo. Ed è solo perché sappiamo che ciò che attende ogni cosa al termine del percorso è la fine e che se sprechiamo il tempo a tormentarci, lasciando le occasioni scorrerci via tra le dita, ciò che resterà saranno solo rimpianti, che possiamo apprezzare davvero il loro splendore, per tenerlo stipato nei nostri ricordi fino a quando non arriverà il giorno in cui dovremo dire addio per sempre alle cose che amiamo, che ci fanno stare bene.
Ecco il motivo per cui i fiori sono belli perché cadono.
Sono belli perché rappresentano la magia del presente e la sua brevità, perché racchiudono in sé il senso stesso dell’esistenza, l’effimerità di quella vita che ci dà e poi ci toglie, lasciandosi dietro una scia nostalgica di memorie preziose ed un po’ malinconiche, che ci accompagneranno nel viaggio fino a che anche il nostro tempo su questa terra non sarà terminato...


"Time might separate us, someday. But, even still, until then, let's stay together"


sabato 17 settembre 2016

Mamma, ho perso il treno! Guida pleonastica su come sperdersi a Tōkyō (parte 2)

Cari Nihonjini, nella puntata precedente vi ho parlato di quanto sia facile perdere uno shūden quando si è stanchissimi e disattentissimi, e di quale potrebbe essere una delle soluzioni più semplici (seppur tra le più costose) da adottare, onde evitare di finire a vagabondare tra le strade di Tōkyō in piena notte, in attesa che le corse dei treni riprendano al mattino successivo. Come vi avevo accennato, ne esistono anche di gran lunga più economiche del taxi, ed ho avuto modo di sperimentarlo a mie spese – figurate e, ahimè, letterali – già il giorno successivo a quello del precedente inconveniente.
La seconda volta che persi lo shūden era una fredda notte in cui credevo che, prese le giuste precauzioni, esperienze come quella da poco vissuta sarebbero state dure a verificarsi nuovamente. Una notte in cui avevo avuto la brillante idea di dimenticare la sciarpa al lavoro, tra l'altro, ma avevo almeno avuto la decenza di declinare l'invito del mio capo a scolarci una bottiglia di amaretto assieme, per affogare i dispiaceri nell'alcol.
Completamente sobria, una volta tanto, e felice di aver imparato la lezione, pensai di fare un salto in un negozietto sulla strada, poco distante dalla stazione, per premiarmi con un bell'onigiri tonno e maionese, in barba alla linea e a tutte quelle persone che adesso staranno pensando “oddio, come si fa a mangiare una roba del genere a mezzanotte passata?”, ai quali risponderò con fierezza che si campa una volta.
Peccato che quella notte sia stato proprio il mio piccolo peccato di gola ad avermi condotta ad un nuovo sventurato epilogo. Non ho mai particolarmente avuto a cuore la narrativa dantesca, ma devo ammettere che sembrava quasi il creato mi avesse condannato ad una qualche punizione divina per la mia golosità e negligenza, sebbene sia, per fortuna, riuscita almeno ad evitarmi la flagellazione delle intemperie: convintissima di essere perfettamente in orario, infatti, quando invece il treno buono me l'ero persa per il tempo perso a scegliere tra gli onigiri dai mille gusti, mi sono resa conto solo arrivata ad Akihabara che lo shūden era passato pochi minuti prima.
Mannaggia a Pippo, ho pensato, e adesso come dovrei pagarmelo il taxi per tornare a casa?
Rassegnata e consapevole di avere ben poc'altra scelta, ho deciso a quel punto di fare l'unica cosa sensata che mi venisse in mente: imboccare la prima strada a caso fuori la stazione e cominciare a seguire le indicazioni sui cartelli stradali che dicevano “Ichikawa”. Certo, sarebbe stata una strada lunga – aiutatemi a dire lunga – da percorrere, ma dopotutto non è che avessi chissà cos'altro d'importante da fare fino alle cinque e mezza del mattino. Dovevo solo essere certa che la strada imboccata portasse effettivamente ad Ichikawa o mi sarei definitivamente spersa, e t'oh!, guarda che fortuna! c'era un uomo di mezza età camminare qualche metro davanti a me. È stato quello il momento in cui ho realizzato che anche i giapponesi, talvolta, possono venire in mente le mie stesse trovate geniali. Anche quel signore, infatti, aveva perso lo shūden ed aveva deciso di tornare a piedi alla sua dimora.
Dove devi andare, tu?”, mi disse.
Ad Ichikawa. E Lei?”
Ad Asakusa. Potremmo fare un pezzo di strada assieme. Ti lascio ad un netto kafe dalle parti di Kinshichō.”
Cosa? Dite che è da irresponsabili accettare un invito del genere da uno sconosciuto in piena notte? Bè, forse non avete tutti i torti, ma posso assicurarvi che il Giappone non a caso è considerato uno dei paesi meno pericolosi al mondo. Sia per il gran numero di stazioni di polizia sparse un po' ovunque sul territorio edochiano, sia per le regolari ronde effettuate dagli agenti che ci lavorano, sia per i tantissimi ventiquattr'ore (i cosiddetti konbini) locati tipo ogni cento metri, sia per la civiltà del suo pacifico popolo, è praticamente impossibile riuscire a trovarsi davvero in pericolo. Mal che vada, c'è sempre un negozio in cui rifugiarsi o qualcuno che sentirebbe le vostre urla se doveste avere la sfortuna di rientrare in quella piccola - statisticamente parlando – percentuale di persone assassinate o aggredite, soprattutto se avete l'accortezza di restare sulle strade principali.
E, inltr-... Cosa? Non avete idea di che cavolo sia un netto kafe? Ah, tranquilli, non ce l'avevo neanch'io fino a quando non ho avuto modo di vederne uno coi miei stessi occhi. Vi dico solo che, a sentirne il nome, ero certa si trattasse di qualche internet point ad orario continuo, ma la mia idea non poteva essere più lontana dalla realtà.
Dopo tre buone ore trascorse a conversare piacevolmente col mio scortatore asakusese, che mi mostrò i migliori spot notturni sui ponti della periferia di Tōkyō, e mi aiutò, tra le altre cose, a farmi una cultura sulla storia del sumō, portandomi pure a vedere l'esterno del Ryōgoku Kokugikan (lo stadio utilizzato per il tradizionale evento sportivo e che si trova appunto a Ryōgoku, per chi avesse voglia di farci una capatina), giungemmo di fronte ad un comunissimo edificio, che mi diede l'impressione i miei dubbi sulla natura del posto fossero fondati. Solo quando ci entrai, capii invece che da quel momento in poi avrei amato un po' di più il magico mondo della vita notturna tokyota! Scoprii, infatti, che un netto kafe (meno volgarmente detto manga kissa) non solo è un internet point, ma è anche quello che definisco come “paradiso dell'intrattenimento per sfigati che hanno perso il treno, pendolari squattrinati e viaggiatori parsimoniosi, che non hanno voglia di spendere migliaia di yen per usufruire di una camera d'hotel di due metri quadri, se la fortuna li assiste”. In un netto kafe non solo si può far uso del computer, ma si può anche scegliere tra una vasta gamma di cabine, se non addirittura vere e proprie camere personali, dotate – dalla più economica alla più cara – di sedia, poltrona, divano e persino un tavolo, per quelle formato famiglia! Per non parlare poi della Play Station ultimo modello con giochi annessi, della quantità spropositata di riviste e manga messi a disposizione degli ospiti, dei distrubutori automatici di bevande ad uso illimitato, della doccia gratuita ed, in alcuni, persino di biliardo, tennis da tavolo e sala karaoke!
Insomma, se l'avessi saputo prima, altro che taxi, quella robaccia lussuosa con le ruote l'avrei lasciata ai facoltosi dotati di Black Card! Per noi che, invece, il nostro piccolo gruzzolo stiamo ben attenti a non gettarlo alle ortiche, il netto kafe può essere una buona soluzione non solo per quando capita di trovarsi impantanati in quel di Tōkyō a notte fonda, ma anche una buona occasione di esperire un lifestyle in puro stile giapponese odierno!
Insomma, a ripensarci, quella volta perdere il treno non è stato per niente male: che si vuole di più di incontrare un nihonjino gentile che ti accompagna a casa mentre ti accultura sul sumō, di osservare l'anima della Tōkyō dormiente e di conoscere posti peculiarmente nipponici come i netto kafe?
Tutto sommato, perdersi in un luogo per scoprirne quei piccoli dettagli che da turista canonico capita spesso possano sfuggire credo sia la parte migliore di ogni viaggio, non credete?
Mata ne!


domenica 11 settembre 2016

Mamma, ho perso il treno! Guida pleonastica su come sperdersi a Tōkyō (parte 1)

Cari Nihonjini, vi siete mai chiesti che cosa succederebbe se vi attardaste dopo il lavoro per tracannare galloni di birra assieme ai vostri colleghi o se foste così stanchi da non riuscire a tenere gli occhi aperti fino alla fermata più vicina a casa vostra? Bè, se vi trovate in terra nipponica, ci sono solo due possibili risposte a questo quesito: succede che o siete stati così coscienziosi da evitare di muovervi all'ultimo secondo ed avete ancora una possibilità di passare la notte tranquilli e beati nel vostro lettino, o siete incappati nel dramma di aver mancato lo shūden per un pelo, restando impantanati da qualche parte senza possibilità di far ritorno alla vostra amata dimora!
Per chi se lo stesse chiedendo, il termine “shūden” è l'abbreviazione di saishū densha, che vuol dire “ultimo treno”, e credo non ci sia alcun bisogno di stare a spiegarvi dove inizia e finisce la sciagura quando lo si perde, restando a piedi in una megalopoli come Tōkyō, nel bel mezzo della notte. Sebbene non ci sia alcun pericolo di incappare in mostri che tentino di cibarsi delle vostre spoglie (ed ogni riferimento a Tōkyō Ghoul è puramente casuale), la sensazione di smarrimento che potrebbe assalirvi, soprattutto se quando accade siete soli, può rivelarsi addirittura angosciante.
Per fortuna, però, di tutti gli amanti della Nipponia un po' distratti come la sottoscritta, Tōkyō offre una vasta gamma di soluzioni alternative al barboneggio selvatico precedente la riapertura delle corse di treni e metro (in genere, stabilita tra le cinque e le sei del mattino) e, personalmente, ne ho sperimentate di ben due tipi: una molto felice ed una alquanto infausta, soprattutto se il vostro portafoglio, come lo era il mio, è più piatto di una piadina romagnola e più vuoto della testa di Homer Simpson. In questa prima parte dell'articolo vi parlerò solo di quest'ultima ma, ahimè, talvolta necessaria soluzione, che possiede comunque le sue belle note di merito.
Comincio subito col dirvi che, a meno che non abbiate intenzione di bighellonare coi vostri colleghi fino all'alba del giorno dopo, bevendo come spugne rintanati in una qualche izakaya (una specie di pub in stile giapponese), sarebbe meglio declinare cortesemente l'invito se il vostro capo vi invitasse a bere per festeggiare gli zero introiti della giornata col resto della combriccola di dipendenti. Io, che ho purtroppo una testa di m...andarino, la sera in cui ho capito che pregare kamisama non avrebbe potuto salvarmi dal disastro facendo apparire un treno dal nulla, di birre me n'ero scolate decisamente troppe, ma forte di aver preventivamente calcolato alla perfezione gli orari degli ultimi treni per il ritorno, non sono stata troppo a preoccuparmi delle possibili conseguenze. Mai avrei potuto, infatti, immaginare quello che sarebbe accaduto di lì a poco.
Salita barcollando sul treno, sono riuscita ad arraffarmi un bel posticino dove arroccare il mio regale posteriore, e pazienza per tutti i giapponesi rimasti all'in piedi, ma per una volta la poltrona se la sarebbe goduta la straniera! Credetemi quando vi dico che starvene in piedi in mezzo al rush edochiano dell'ultimo treno per quasi un'ora di fila è un'esperienza che NON vorreste fare neppure se foste giovani e pimpanti... Figurarsi poi se siete stanchi e brilli! Comoda, comoda nel mio posticino, ho pensato di distrarmi giocando un po' alla PSP, ma solo quando ho ripreso conoscenza mi sono resa conto di non averla in realtà mai accesa e che la voce registrata nell'altoparlante annunciava, quale fermata successiva, la stazione di Kanda. Niente di terribile, certo, se Kanda non fosse stata la stazione dopo quella di Akihabara, ossia quella dove avrei dovuto fare il cambio per tornare a casa. Realizzato di aver combinato il solito gran casino, mi sono precipitata fuori dal treno per sfrecciare verso quello in partenza sul binario opposto, che sono riuscita a prendere giusto per un pelo.
Fiù~” ero sicura di essere riuscita a scamparla, ma lo scenario che mi si parò di fronte una volta giunta ad Akihabara la disse lunga sul fatto che potessi effettivamente considerarmi fuori pericolo: il nulla, ecco cosa ci trovai, e chi è stato ad Akihabara almeno una volta nella vita sa bene quanto sia surreale l'ipotesi di trovarla sgombra da ogni qualsivoglia forma di vita.
"Mi scusi! Mi scusi! Dove sono i treni per Ichikawa!" ho urlato, in preda al panico, all'unico essere umano (un vecchio inserviente) ancora nei paraggi, per attirare la sua attenzione.
"Veramente sono già passati tutti" mi rispose lui, con la voce sorniona, e fu quello il momento in cui realizzai di essere rimasta a piedi, lontana dal mio bel paesello, in una gelida nottata di inizio dicembre. Amareggiata dalla dura rivelazione, salutai mogia, mogia l'inserviente, pensando a quanto facesse schifo la vita, ma prima che potessi inforcare le scale mobili, proprio lui mi fermò per dirmi “perché non prova a prendere il taxi?”
Vi confesso, Nihonjini, che quella del taxi è un'esperienza che pensavo avrei fatto non prima di vincere il Nobel per la letteratura (mai, insomma), ma che scelta avevo da inesperta studentessa infreddolita qual ero, ancora ignara delle molteplici opportunità che una città come Tōkyō può offrire?
Avviatami verso il piazzale di appostamento taxi, con le lacrime agli occhi dovute alla consapevolezza che il mio portafoglio sarebbe, dopo quella serata, rimasto vuoto per un bel po', ho avuto però modo di fare delle singolari scoperte. Innanzitutto, pare che quella di perdere lo shūden ed essere costretto a prendere il taxi sia un evento più giapponese di quanto non pensassi, poiché quella notte non ero l'unica ad attendere in mezzo a quel piazzale, bensì l'ultima di una modesta fila, composta prevalentemente da giovani assonnati e salariman di mezza età rigorosamente ubriachi.
Altre interessanti scoperte sono state, poi, la figaggine degli sportelli passeggeri, che si aprivano automaticamente, grazie ad un dispositivo in dotazione dell'autista (un nonnino ben vestito, con tanto di guanti bianchi e cappello da capitano), e l'interno del taxi, i cui sedili erano arredati con pizzi e merletti. Tutto quel lusso non lo credevo possibile neppure nell'auto della regina Elisabetta, figurarsi in un'auto che avrebbe solamente dovuto darmi un passaggio a casa! Immaginate, quindi, il terrore che provai all'idea di chissà quanti dindini mi avrebbe fatto sganciare il nonnino anche solo per l'ambiente decisamente troppo confortevole e a me ben poco congeniale! Di sottecchi, mentre chiacchieravo, tenevo dunque d'occhio il monitor lampeggiante, temendo che i millemila semafori in cui ci saremo imbattuti avrebbero costituito il motivo per cui ad un certo punto mi sarei lanciata giù dalla vettura per rotolare via, ma, con mio immenso stupore, ho scoperto che il tassametro nipponico smette di scorrere nel momento esatto in cui l'auto si ferma! Già, perché a differenza dei nostri, il taxi giapponese tiene conto dei chilometri e non del tempo, e se siete così fortunati da incappare in un simpatico nonnino quale autista, che comprende la vostra necessità di risparmiare in un paese che non è il vostro, potreste essere pure abbastanza fortunati da ricevere uno sconto sulla tariffa, come successe a me quella notte!
Morale della favola, se non avessi dovuto bruciarmi comunque cinquemila yen (circa quarantacinque euro), quella del taxi sarebbe stata un'esperienza molto piacevole. Certo è che il giorno successivo all'accaduto pensai bene di premunirmi, segnando gli orari di tutti gli shūden sulla mia agenda, sicura che non avrei mai più ripetuto quell'errore.
Peccato che tra il dire e il fare, si sa, c'è di mezzo il mare, e lo scoprii a mie spese, purtroppo, quella sera stessa...

Tsuzuki (oppure to be continued)...

sabato 3 settembre 2016

Jiko bukken: quando vivere a Shibuya può trasformarsi... nell'incubo di una vita.

Cari Nihonjini, quanti di voi, poveri studenti squattrinati o lavoratori precari, partiti coraggiosamente alla volta della Nipponia con la brama di imparare il giapponese in una delle città più costose del pianeta, non hanno dovuto affrontare la terribile problematica di trovare un alloggio nei pressi della propria scuola, che fosse un po' più ampio di 12 miseri metri quadrati, avesse almeno una finestra, fosse fornito di tutte le comodità possibili ed immaginabili (come bagno e cabina doccia, ad esempio), ma che non fosse più caro di cinquantamila yen, un rene, l'anima ed ambo i polmoni?
Nel corso delle mie avventure nipponiche, questo infelice passaggio ho dovuto sperimentarlo sulla mia pelle ben più di qualche volta e, credetemi, quando per mantenervi gli studi tutto quel che riuscite ad ottenere è un lavoro come cameriera per pochi spiccioli all'ora e qualche ripetizione di italiano, le alternative che restano a dispostizione si riducono a:
1) catapecchie scarafaggiose ad un'ora e mezza di treno dalla vostra destinazione;
2) guest house infestate da topi di varie specie e dimensioni;
3) dormitori con camerate da quindici persone l'una, dove se ti giri nell'angusto spazio corri il rischio di far cadere gli altri ospiti come tessere del domino;
4) i ponti;
5) piangersi disperatamente addosso e pregare in ginocchio i tuoi di offrire un contributo per la tua felicità.
Dal mio canto, piuttosto che ripiegare su una delle soluzioni sopracitate, di cui (tranne che per il punto 4, fortunamente) avevo tra l'altro fatto precedentemente esperienza, ho pensato fosse meglio addizionare ai miei già due stressanti lavori un terzo, grazie al quale mi riusciva sì di racimolare dindini a sufficienza, ma non mi restava praticamente più neppure il tempo per esistere. Rassegnata all'idea che ben presto sotto un ponte ci sarei finita davvero, l'unica cosa che mi rimaneva da fare era maledire il cielo e sfogare la mia frustrazione durante la pausa pranzo con le mie colleghe universitarie. Fu allora che una di loro, un'ingegnera nucleare tedesca per la precisione, mi propose di prenderci un appartamento assieme.
Un appartamento?” mi chiesi, perplessa. “Questa vuole andare a vivere in un ca...mpidoglio di appartamento??” proprio non riuscivo a capacitarmene, e mi chiedevo quale parte di 'non ho neanche gli occhi per piangere' fosse per l'ingegnera tedesca tanto difficile da capire. Ma quando mi ha poi convinta a seguirla in sala computer per mostarmi la lista delle case a cui aveva pensato valesse la pena dare un'occhiata, mi sono letteralmente schizzati gli occhi fuori dalle orbite. Perché? Bé, perché un appartamento a Shibuya, che per chi non lo sapesse è uno dei quartieri più in di Tōkyō, per soli ventimila miseri yen non lo avevo mai immaginato neppure nei miei più reconditi e proibiti sogni. Anzi, al dire il vero, neppure credevo potessero esistere!
Sconcertata da cotanta economicità, ho cominciato a scrollare il resto della lista con la foga di una folle indemoniata, cercando di capire quale fosse il nesso tra “Shibuya” e “appartamenti di 60 mq da ventimila yen”, perché c'era chiaramente qualcosa che continuava a sfuggirmi. Diamine, il trucco doveva pur esserci da qualche parte, ma per quanto insistessi con l'ingegnera tedesca affinché mi svelasse le oscure motivazioni dietro a quella sottospecie di candid camera, lei continuava a sorridermi amabilmente, rassicurandomi del fatto che l'inghippo non ci fosse per davvero.
Ebbene, Nihonjini, quando un'ingegnera nucleare tedesca vuole cercare di convincervi che è normale trovare appartamenti a Shibuya per affitti così bassi non credetele, perché sta sicuramente mentendo! Di certo, o vi sta propinando una scusa per convincervi a seguirla in qualche meandro oscuro della città, con lo scopo di vendervi alla yakuza, oppure, per citare il Grande Lebovsky, fa parte del circolo di quei 'nichilisti che non credono in niente', senza macchia e senza paura! Nel mio caso, la risposta apparteneva alla seconda categoria, perché uno spaventoso inghippo c'era eccome, e l'ho scoperto solo quando, discutendone a tavola con la famiglia giapponese presso cui ero ospite in quel periodo, il mio Ōtosan (padre) mi chiese con titubanza “non è che si tratta di un jiko bukken?”.
Se anche voi leggendo questo termine avete storpiato la faccia, chiedendovi “e adesso che cavolo è un jiko bukken?” come feci io allora nel sentirlo, resterete ancora più stupiti quando vi dirò in che razza di metafisico casino sono stata sul punto di cacciarmi. I jiko bukken sono, infatti, quegli alloggi presso cui chi decide di andare a viverci, dovrà prepararsi all'eventualità di condividere lo spazio con un terzo incomodo a sorpresa, che non è purtroppo un gattino puccioso od il solito gigantesco ratto di turno. Il terzo incomodo potrebbe, invece, somigliare molto più a Sadako Yamamura di The Ring.
Il fatto è che vengono chiamati jiko bukken tutti quegli appartamenti i cui ex-proprietari non solo hanno lasciato l'abitazione, ma hanno pure lasciato questo mondo, e per cause ben poco naturali. È una credenza giapponese piuttosto diffusa, difatti, quella secondo la quale le anime rancorose dei morti per cause violente od autoprovocate possano restare ad infestare, sotto forma di yūrei (fantasmi), il luogo in cui è avvenuto il loro trapasso. In realtà, la categoria di jiko bukken è molto più vasta di così: non comprende solo questo tipo di abitazioni incindetate, ma anche altri tipi di proprietà considerate a stretto contatto col mondo degli spiriti, quali quelle costruite sui pozzi (e, come in uno dei prossimi articoli spiegherò, solo i kami sanno quanto terrore i giapponesi abbiano dei pozzi!) o quelle costruite nei pressi dei cimiteri. Superstiziosi, i giapponesi? Ma no, che dite. Di più. Molto di più. Ma potreste mai dargli torto?
Per quanto ad alcune persone, come all'ingegnera tedesca nichilista, l'idea di un incontro ravvicinato con uno spettro inquieto possa far sorridere, ad altri, come la sottoscritta e la stragrande maggioranza dei giapponesi, fa letteralmente venire il latte alle ginocchia! Chiunque abbia avuto modo di intervistare al riguardo, infatti, mi ha confidato che l'idea di andare a vivere in un jiko bukken infestato non gli ha mai sfiorato neppure l'anticamera del cervello! Ed, in effetti, ce l'avreste voi il coraggio di vivere con la consapevolezza di potervi ritrovare il precedente propietario dell'appartamento a fissarvi di fianco al letto, mentre dormite? Vorrei ben dire, a questo punto, che le agenzie immobiliari mettano in vendita questo genere di funeste dimore a prezzi ridicolmente al di sotto della media, in località dove, normalmente, potrebbe viverci solamente gente come Ono Daisuke o Kamiya Hiroshi!
Se è, però, palese per un nipponico identificare questo tipo di fregatura, per ovvie motivazioni culturali, per una povera straniera come me non è così tanto facile, men che meno se poco si conosce del vastissimo universo dell'immaginario collettivo giapponese. Quindi, Nihonjini, attenti se state cercando casa in Giappone, siete disperati, avete pochi soldi e l'agente immobiliare vi propone di acquistarne una ad un prezzo irrisorio in una zona centralissima, perché molto probabilmente starà cercando di rifilarvi una di quelle soluzioni invendute chissà da quanti eoni, per le quali un giapponese medio non opterebbe neppure se il prezzo da pagare fosse un bagno in una vasca di olio bollente. Attenzione anche perché, se non siete voi a chiederlo esplicitamente, mica ve lo dicono gli agenti di loro spontanea volontà il motivo per il quale vogliono assolutamente regalarvi quella casa. Se l'acquirente prima di voi ci ha soggiornato per meno di un mese e quello prima ancora s'è impiccato, non vale la pena di dirlo al nuovo potenziale compratore, no?
Oyasumi.