domenica 11 settembre 2016

Mamma, ho perso il treno! Guida pleonastica su come sperdersi a Tōkyō (parte 1)

Cari Nihonjini, vi siete mai chiesti che cosa succederebbe se vi attardaste dopo il lavoro per tracannare galloni di birra assieme ai vostri colleghi o se foste così stanchi da non riuscire a tenere gli occhi aperti fino alla fermata più vicina a casa vostra? Bè, se vi trovate in terra nipponica, ci sono solo due possibili risposte a questo quesito: succede che o siete stati così coscienziosi da evitare di muovervi all'ultimo secondo ed avete ancora una possibilità di passare la notte tranquilli e beati nel vostro lettino, o siete incappati nel dramma di aver mancato lo shūden per un pelo, restando impantanati da qualche parte senza possibilità di far ritorno alla vostra amata dimora!
Per chi se lo stesse chiedendo, il termine “shūden” è l'abbreviazione di saishū densha, che vuol dire “ultimo treno”, e credo non ci sia alcun bisogno di stare a spiegarvi dove inizia e finisce la sciagura quando lo si perde, restando a piedi in una megalopoli come Tōkyō, nel bel mezzo della notte. Sebbene non ci sia alcun pericolo di incappare in mostri che tentino di cibarsi delle vostre spoglie (ed ogni riferimento a Tōkyō Ghoul è puramente casuale), la sensazione di smarrimento che potrebbe assalirvi, soprattutto se quando accade siete soli, può rivelarsi addirittura angosciante.
Per fortuna, però, di tutti gli amanti della Nipponia un po' distratti come la sottoscritta, Tōkyō offre una vasta gamma di soluzioni alternative al barboneggio selvatico precedente la riapertura delle corse di treni e metro (in genere, stabilita tra le cinque e le sei del mattino) e, personalmente, ne ho sperimentate di ben due tipi: una molto felice ed una alquanto infausta, soprattutto se il vostro portafoglio, come lo era il mio, è più piatto di una piadina romagnola e più vuoto della testa di Homer Simpson. In questa prima parte dell'articolo vi parlerò solo di quest'ultima ma, ahimè, talvolta necessaria soluzione, che possiede comunque le sue belle note di merito.
Comincio subito col dirvi che, a meno che non abbiate intenzione di bighellonare coi vostri colleghi fino all'alba del giorno dopo, bevendo come spugne rintanati in una qualche izakaya (una specie di pub in stile giapponese), sarebbe meglio declinare cortesemente l'invito se il vostro capo vi invitasse a bere per festeggiare gli zero introiti della giornata col resto della combriccola di dipendenti. Io, che ho purtroppo una testa di m...andarino, la sera in cui ho capito che pregare kamisama non avrebbe potuto salvarmi dal disastro facendo apparire un treno dal nulla, di birre me n'ero scolate decisamente troppe, ma forte di aver preventivamente calcolato alla perfezione gli orari degli ultimi treni per il ritorno, non sono stata troppo a preoccuparmi delle possibili conseguenze. Mai avrei potuto, infatti, immaginare quello che sarebbe accaduto di lì a poco.
Salita barcollando sul treno, sono riuscita ad arraffarmi un bel posticino dove arroccare il mio regale posteriore, e pazienza per tutti i giapponesi rimasti all'in piedi, ma per una volta la poltrona se la sarebbe goduta la straniera! Credetemi quando vi dico che starvene in piedi in mezzo al rush edochiano dell'ultimo treno per quasi un'ora di fila è un'esperienza che NON vorreste fare neppure se foste giovani e pimpanti... Figurarsi poi se siete stanchi e brilli! Comoda, comoda nel mio posticino, ho pensato di distrarmi giocando un po' alla PSP, ma solo quando ho ripreso conoscenza mi sono resa conto di non averla in realtà mai accesa e che la voce registrata nell'altoparlante annunciava, quale fermata successiva, la stazione di Kanda. Niente di terribile, certo, se Kanda non fosse stata la stazione dopo quella di Akihabara, ossia quella dove avrei dovuto fare il cambio per tornare a casa. Realizzato di aver combinato il solito gran casino, mi sono precipitata fuori dal treno per sfrecciare verso quello in partenza sul binario opposto, che sono riuscita a prendere giusto per un pelo.
Fiù~” ero sicura di essere riuscita a scamparla, ma lo scenario che mi si parò di fronte una volta giunta ad Akihabara la disse lunga sul fatto che potessi effettivamente considerarmi fuori pericolo: il nulla, ecco cosa ci trovai, e chi è stato ad Akihabara almeno una volta nella vita sa bene quanto sia surreale l'ipotesi di trovarla sgombra da ogni qualsivoglia forma di vita.
"Mi scusi! Mi scusi! Dove sono i treni per Ichikawa!" ho urlato, in preda al panico, all'unico essere umano (un vecchio inserviente) ancora nei paraggi, per attirare la sua attenzione.
"Veramente sono già passati tutti" mi rispose lui, con la voce sorniona, e fu quello il momento in cui realizzai di essere rimasta a piedi, lontana dal mio bel paesello, in una gelida nottata di inizio dicembre. Amareggiata dalla dura rivelazione, salutai mogia, mogia l'inserviente, pensando a quanto facesse schifo la vita, ma prima che potessi inforcare le scale mobili, proprio lui mi fermò per dirmi “perché non prova a prendere il taxi?”
Vi confesso, Nihonjini, che quella del taxi è un'esperienza che pensavo avrei fatto non prima di vincere il Nobel per la letteratura (mai, insomma), ma che scelta avevo da inesperta studentessa infreddolita qual ero, ancora ignara delle molteplici opportunità che una città come Tōkyō può offrire?
Avviatami verso il piazzale di appostamento taxi, con le lacrime agli occhi dovute alla consapevolezza che il mio portafoglio sarebbe, dopo quella serata, rimasto vuoto per un bel po', ho avuto però modo di fare delle singolari scoperte. Innanzitutto, pare che quella di perdere lo shūden ed essere costretto a prendere il taxi sia un evento più giapponese di quanto non pensassi, poiché quella notte non ero l'unica ad attendere in mezzo a quel piazzale, bensì l'ultima di una modesta fila, composta prevalentemente da giovani assonnati e salariman di mezza età rigorosamente ubriachi.
Altre interessanti scoperte sono state, poi, la figaggine degli sportelli passeggeri, che si aprivano automaticamente, grazie ad un dispositivo in dotazione dell'autista (un nonnino ben vestito, con tanto di guanti bianchi e cappello da capitano), e l'interno del taxi, i cui sedili erano arredati con pizzi e merletti. Tutto quel lusso non lo credevo possibile neppure nell'auto della regina Elisabetta, figurarsi in un'auto che avrebbe solamente dovuto darmi un passaggio a casa! Immaginate, quindi, il terrore che provai all'idea di chissà quanti dindini mi avrebbe fatto sganciare il nonnino anche solo per l'ambiente decisamente troppo confortevole e a me ben poco congeniale! Di sottecchi, mentre chiacchieravo, tenevo dunque d'occhio il monitor lampeggiante, temendo che i millemila semafori in cui ci saremo imbattuti avrebbero costituito il motivo per cui ad un certo punto mi sarei lanciata giù dalla vettura per rotolare via, ma, con mio immenso stupore, ho scoperto che il tassametro nipponico smette di scorrere nel momento esatto in cui l'auto si ferma! Già, perché a differenza dei nostri, il taxi giapponese tiene conto dei chilometri e non del tempo, e se siete così fortunati da incappare in un simpatico nonnino quale autista, che comprende la vostra necessità di risparmiare in un paese che non è il vostro, potreste essere pure abbastanza fortunati da ricevere uno sconto sulla tariffa, come successe a me quella notte!
Morale della favola, se non avessi dovuto bruciarmi comunque cinquemila yen (circa quarantacinque euro), quella del taxi sarebbe stata un'esperienza molto piacevole. Certo è che il giorno successivo all'accaduto pensai bene di premunirmi, segnando gli orari di tutti gli shūden sulla mia agenda, sicura che non avrei mai più ripetuto quell'errore.
Peccato che tra il dire e il fare, si sa, c'è di mezzo il mare, e lo scoprii a mie spese, purtroppo, quella sera stessa...

Tsuzuki (oppure to be continued)...

Nessun commento:

Posta un commento