Cari
Nihonjini,
vi siete mai chiesti che cosa succederebbe se vi attardaste dopo il
lavoro per tracannare galloni di birra assieme ai vostri colleghi o
se foste così stanchi da non riuscire a tenere gli occhi aperti fino
alla fermata più vicina a casa vostra? Bè, se vi trovate in terra
nipponica, ci sono solo due possibili risposte a questo quesito:
succede che o siete stati così coscienziosi da evitare di muovervi
all'ultimo secondo ed avete ancora una possibilità di passare la
notte tranquilli e beati nel vostro lettino, o siete incappati nel
dramma di aver mancato lo shūden
per un pelo, restando impantanati da qualche parte senza possibilità
di far ritorno alla vostra amata dimora!
Per
chi se lo stesse chiedendo, il termine “shūden”
è l'abbreviazione di saishū
densha,
che vuol dire “ultimo treno”, e credo non ci sia alcun bisogno di
stare a spiegarvi dove inizia e finisce la sciagura quando lo si
perde, restando a piedi in una megalopoli come Tōkyō, nel bel mezzo
della notte. Sebbene non ci sia alcun pericolo di incappare in mostri
che tentino di cibarsi delle vostre spoglie (ed ogni riferimento a
Tōkyō Ghoul è puramente casuale), la sensazione di smarrimento che
potrebbe assalirvi, soprattutto se quando accade siete soli, può
rivelarsi addirittura angosciante.
Per
fortuna, però, di tutti gli amanti della Nipponia un po' distratti
come la sottoscritta, Tōkyō offre una vasta gamma di soluzioni
alternative al barboneggio selvatico precedente la riapertura delle
corse di treni e metro (in genere, stabilita tra le cinque e le sei
del mattino) e, personalmente, ne ho sperimentate di ben due tipi:
una molto felice ed una alquanto infausta,
soprattutto se il vostro portafoglio, come lo era il mio, è più
piatto di una piadina romagnola e più vuoto della testa di Homer
Simpson. In questa prima parte dell'articolo vi parlerò solo di
quest'ultima ma, ahimè, talvolta necessaria soluzione, che possiede
comunque le sue belle note di merito.
Comincio
subito col dirvi che, a meno che non abbiate intenzione di
bighellonare coi vostri colleghi fino all'alba del giorno dopo,
bevendo come spugne rintanati in una qualche izakaya
(una
specie di pub in stile giapponese), sarebbe meglio declinare
cortesemente l'invito se il vostro capo vi invitasse a bere per
festeggiare gli zero introiti della giornata col resto della
combriccola di dipendenti. Io, che ho purtroppo una testa di
m...andarino, la sera in cui ho capito che pregare kamisama
non avrebbe potuto salvarmi dal disastro facendo apparire un treno
dal nulla, di birre me n'ero scolate decisamente troppe, ma forte di
aver preventivamente calcolato alla perfezione gli orari degli ultimi
treni per il ritorno, non sono stata troppo a preoccuparmi delle
possibili conseguenze. Mai avrei potuto, infatti, immaginare quello
che sarebbe accaduto di lì a poco.
Salita
barcollando sul treno, sono riuscita ad arraffarmi un bel posticino
dove arroccare il mio regale posteriore, e pazienza per tutti i
giapponesi rimasti all'in piedi, ma per una volta la poltrona se la
sarebbe goduta la straniera! Credetemi quando vi dico che starvene in
piedi in mezzo al rush
edochiano dell'ultimo treno per quasi un'ora di fila è un'esperienza
che NON vorreste fare neppure se foste giovani e pimpanti...
Figurarsi poi se siete stanchi e brilli! Comoda, comoda nel mio
posticino, ho pensato di distrarmi giocando un po' alla PSP, ma solo
quando ho ripreso conoscenza mi sono resa conto di non averla in
realtà mai accesa e che la voce registrata nell'altoparlante
annunciava, quale fermata successiva, la stazione di Kanda. Niente di
terribile, certo, se Kanda non fosse stata la stazione dopo quella di
Akihabara, ossia quella dove avrei dovuto fare il cambio per tornare
a casa. Realizzato
di aver combinato il solito gran casino, mi sono precipitata fuori
dal treno per sfrecciare verso quello in partenza sul binario
opposto, che sono riuscita a prendere giusto per un pelo.
“Fiù~”
ero sicura di essere
riuscita a scamparla,
ma lo scenario che mi si parò di fronte una volta giunta ad
Akihabara la disse lunga sul fatto che potessi effettivamente
considerarmi fuori
pericolo:
il nulla, ecco cosa ci trovai, e chi è stato ad Akihabara almeno una
volta nella vita sa bene quanto sia surreale l'ipotesi di trovarla
sgombra da ogni qualsivoglia forma di vita.
"Mi
scusi! Mi scusi! Dove sono i treni per Ichikawa!"
ho urlato, in preda al panico, all'unico essere umano (un vecchio
inserviente) ancora nei paraggi, per attirare la sua attenzione.
"Veramente
sono già passati tutti" mi rispose lui, con la voce sorniona, e
fu quello
il momento in cui realizzai di essere rimasta a piedi, lontana dal
mio bel paesello, in una gelida nottata di inizio dicembre.
Amareggiata
dalla dura rivelazione, salutai mogia, mogia l'inserviente, pensando
a quanto facesse schifo la vita, ma prima che potessi inforcare le
scale mobili, proprio lui mi fermò per dirmi “perché non prova a
prendere il taxi?”
Vi
confesso, Nihonjini,
che quella del taxi è un'esperienza che pensavo avrei fatto non
prima di vincere il Nobel per la letteratura (mai, insomma), ma che
scelta avevo da inesperta studentessa infreddolita qual ero, ancora
ignara delle molteplici opportunità che una città come Tōkyō può
offrire?
Avviatami
verso il piazzale di appostamento taxi, con le lacrime agli occhi
dovute alla consapevolezza che il mio portafoglio sarebbe, dopo
quella serata, rimasto vuoto per un bel po', ho avuto però modo di
fare delle singolari scoperte. Innanzitutto, pare che quella di
perdere lo shūden
ed essere costretto a prendere il taxi sia un evento più giapponese
di quanto non pensassi, poiché quella notte non ero l'unica ad
attendere in mezzo a quel piazzale, bensì l'ultima di una modesta
fila, composta prevalentemente da giovani assonnati e salariman
di mezza età rigorosamente ubriachi.
Altre
interessanti scoperte sono state, poi, la figaggine degli sportelli
passeggeri, che si aprivano automaticamente, grazie ad un dispositivo
in dotazione dell'autista (un nonnino ben vestito, con tanto di
guanti bianchi e cappello da capitano), e l'interno del taxi, i cui
sedili erano arredati con pizzi e merletti. Tutto quel lusso non lo
credevo possibile neppure nell'auto della regina Elisabetta,
figurarsi in un'auto che avrebbe solamente dovuto darmi un passaggio
a casa! Immaginate, quindi, il terrore che provai all'idea di chissà
quanti dindini mi avrebbe fatto sganciare il nonnino anche solo per
l'ambiente decisamente troppo confortevole e a me ben poco
congeniale!
Di sottecchi, mentre chiacchieravo, tenevo dunque d'occhio il monitor
lampeggiante, temendo che i millemila semafori in cui ci saremo
imbattuti avrebbero costituito il motivo per cui ad un certo punto mi
sarei lanciata giù dalla vettura per rotolare via, ma, con mio
immenso stupore, ho scoperto che il tassametro nipponico smette di
scorrere nel momento esatto in cui l'auto si ferma! Già, perché a
differenza dei nostri, il taxi giapponese tiene conto dei chilometri
e non del tempo, e se siete così fortunati da incappare in un
simpatico nonnino quale autista, che comprende la vostra necessità
di risparmiare in un paese che non è il vostro, potreste essere pure
abbastanza fortunati da ricevere uno sconto sulla tariffa, come
successe a me quella notte!
Morale
della favola, se non avessi dovuto bruciarmi comunque cinquemila yen
(circa quarantacinque euro), quella del taxi sarebbe stata
un'esperienza molto piacevole. Certo è che il giorno successivo
all'accaduto pensai bene di premunirmi, segnando gli orari di tutti
gli shūden
sulla mia agenda, sicura che non avrei mai più ripetuto
quell'errore.
Peccato
che tra il dire e il fare, si sa, c'è di mezzo il mare, e lo scoprii
a mie spese, purtroppo, quella sera stessa...
Tsuzuki
(oppure
to be continued)...
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