lunedì 26 settembre 2016

Non scordare: camminiamo sopra l’inferno, ammirando i fiori

Cari Nihonjini, credo che quello che sto per scrivere sarà probabilmente l’articolo meno stupido e divertente della storia delle mie pubblicazioni, ma avevo assolutamente bisogno di condividere con qualcuno che ami il Giappone almeno quanto lo amo io quello che provo per la cultura di questo meraviglioso popolo.
Ieri mi sono imbattuta casualmente – potremmo anche dire fortunatamente – in un film d’animazione che mi ha lasciata davvero senza fiato e che mi sento di consigliare a tutti gli amanti del folklore nipponico, ossia Hotarubi no mori e. Perché questo film mi è piaciuto così tanto? Bè, perché mi ha riportato alla mente una frase che una volta una vecchietta giapponese con cui ebbi il piacere di trascorrere una tranquilla serata davanti ad un buon nabe bollente, nella piccola città di Fuminosato (prefettura di Ōsaka), mi disse, ossia “i fiori sono belli perché cadono”.
Non è stato facile comprendere il significato di questa frase. Bisogna possedere una sensibilità, una bellezza, una profondità d’animo fuori dal comune per arrivare a capire cosa la vecchietta cercasse di dire con quelle parole, che alla nostra cultura occidentale sembrano così strane e distanti. Mi ci è voluto un po’ per rimettere assieme i pezzi e trovare la mia risposta, e non esiste mezzo migliore di questa pellicola, che è pura poesia, per potervela esplicare al meglio.
Hotarubi no mori e è la storia di Hotaru, una studentessa del liceo, che all’età di sei anni, incuriosita dalle leggende su un dio della montagna, si era smarrita nella foresta dove questi si narrava abitasse, e di Gin, uno spirito, che quella volta l’aveva trovata e portata in salvo. Tra i due si consolida presto una tacita promessa: Hotaru tornerà da Gin ogni estate nello stesso punto in cui la prima volta si sono lasciati, ma si impegnerà a non toccare mai lo spirito che altrimenti, a causa di un incantesimo, finirebbe col dissolversi.
Forse, in quanto amanti del Giappone, sarebbe superfluo farvi notare quanti elementi dell’universo filosofico shintoista siano presenti in questa trama, a partire dal setting, che già da sé denota uno sconfinato amore per la natura, entro la quale si nascondono essenze, maligne e benigne, che coesistono con l’essere umano, creando un equilibrio perfetto tra il mondo empirico e quello magico dell’ultraterreno. La montagna, simbolo del passaggio tra la vita e la morte, prova iniziatica per l’ascesa ad un’esistenza nuova e trascendentale, intricato mandala che ogni uomo, prima o poi, dovrà sforzarsi di interpretare alla fine della vita, fa da sfondo all’intera vicenda, nel suo ruolo di osservatrice silenziosa e di incantata fautrice, madre benevola di tutte quelle forze mistiche e sovrannaturali che sono gli spiriti della foresta, le sue amate creature. Questi, come la loro matrice, osservano i vivi da lontano, nel silenzio, senza mai superare la barriera che li divide dalla vita propriamente detta, abitando un universo tutto loro, che non è così tanto distante da quello degli esseri umani. Danzano, festeggiano l’estate, passeggiano tra bancarelle piene di dolci fatati, maschere, girandole, ridono in compagnia, imitando fin nei minimi dettagli quella società umana a cui forse un tempo anche loro erano appartenuti. Tra loro c’è Gin, che non è spirito e non è umano. È qualcosa che sta nel mezzo, che rappresenta la bellezza dell’esistenza, tanto straordinaria, quanto effimera, poiché al minimo alito di vento rischia di spezzarsi, di essere spazzata via per sempre. Gin, come un fiore, rappresenta il mistero ed il fascino di quel soffio che anima tutte le cose del creato, così potente, eppure così tanto fragile da rischiare di finire in un istante, per una disattenzione, per un semplice tocco. Governato da forze immense rispetto all’insignificanza dell’elemento umano, il suo significato è sfuggente, forse impossibile da interpretare, almeno fino a che, con la fine della vita, tornando a far parte di quel tutto che è ciclo dell’eternità, diverremo anche noi parte stessa dei suoi misteri.
Gin, dunque, come metafora di tutto ciò che è puro ed evanescente, di tutto ciò che è bello e destinato a scomparire nel nulla.
Confrontandola con un contesto simile, la frase di quella vecchietta non appare neanche più così tanto astrusa, se proviamo a spogliarci per un attimo della nostra visione pessimistica della fine. Anzi, non vi sembra invece che calzi proprio a pennello?
Nella nostra cultura, siamo abituati a pensare che i fiori siano belli solo quando sono in rigoglio, che la loro caduta sia metafora di morte e marcescenza – basti pensare alla rosa ne La Bella e la Bestia che, quando sarà appassita, segnerà la fine di tutto, condannando Belle al tormento di aver perso ciò che ama e non è riuscita a difendere. Vorremmo vederli esistere per sempre, lottiamo per tenerli disperatamente in vita, sopraffatti dal terrore che prima o poi svaniranno nell’oblio, e siamo così tanto impegnati a preoccuparci della fine da dimenticare di godere del loro splendore quando ancora ne abbiamo l’occasione, sprecando così il nostro tempo ad illuderci di quanto sarebbe bello se soltanto potessero brillare in eterno.
Nell’ottica giapponese, l’ora è adesso, perché non esiste nulla di immutabile, e i momenti lasciati sono ormai irrecuperabili. Le ferite, le perdite, le lacrime fanno certo paura, ma rappresentano anche cicatrici da mostrare con orgoglio, da valorizzare, da cospargere d’oro, come si fa con le crepe delle ciotole incrinate, usurate dal tempo. Ed è solo perché sappiamo che ciò che attende ogni cosa al termine del percorso è la fine e che se sprechiamo il tempo a tormentarci, lasciando le occasioni scorrerci via tra le dita, ciò che resterà saranno solo rimpianti, che possiamo apprezzare davvero il loro splendore, per tenerlo stipato nei nostri ricordi fino a quando non arriverà il giorno in cui dovremo dire addio per sempre alle cose che amiamo, che ci fanno stare bene.
Ecco il motivo per cui i fiori sono belli perché cadono.
Sono belli perché rappresentano la magia del presente e la sua brevità, perché racchiudono in sé il senso stesso dell’esistenza, l’effimerità di quella vita che ci dà e poi ci toglie, lasciandosi dietro una scia nostalgica di memorie preziose ed un po’ malinconiche, che ci accompagneranno nel viaggio fino a che anche il nostro tempo su questa terra non sarà terminato...


"Time might separate us, someday. But, even still, until then, let's stay together"


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