Nihonjini,
vi è mai capitato di essere ignorati da un giapponese o di avere la
sensazione cambiasse direzione proprio quando avevate in mente di
chiedergli indicazioni stradali? A me è capitato spessissimo e mi
sono sentita ogni volta come avessi ben manifesti in faccia i bubboni
della peste. Soprattutto durante i primi periodi, quando il mio
accento giapponese faceva parecchio schifo e il mio vocabolario era
più scarso della quantità di sale in un dorayaki, ero
convinta che fosse tutta colpa della mia faccia ben poco asiatica e
che le mie compagne saccenti dei tempi dell'università avessero
ragione a dire “ptf, i giapponesi sono un popolo di razzisti
xenofobi! Shù!”. Ecco, quando un compagno di corso saccente vi
dice certe cose, non credetegli solo perché ha la media del 39 ed è
stato in vacanza in Giappone per venti giorni, perché servono molte
più variabili per imparare a capire cosa frulli nella testa di un
giapponese e, soprattutto, tanto dialogo coi locali e tanta
esperienza. Io non ne ho moltissima, ma voglio provare comunque a
spiegarvi come la penso al riguardo e com'è che ho cambiato
atteggiamento nei confronti di uno dei tanti pregiudizi che girano
attorno al popolo giapponese. E, ovviamente, quale altro fattore più
della mia solita sfiga poteva fornirmi un esempio migliore di quello
che sto per raccontarvi? Perché a voi è mai capitato alla vostra
prima doccia in suolo nipponico si rompessero le ciabatte apposite,
comprate il giorno prima di partire, e foste costretti a dovervene
procurare urgentemente un nuovo paio? Ecco, visto che qualcuno mi ha
detto “Dareka, tu hai il diavolo dentro” e che a me è successo,
si potrebbe dire mai sentenza sia stata più verietiera. Lo so,
starete sicuramente pensando: “mamma mia, quanto la fa lunga questa
per un paio di ciabatte rotte”, ed in effetti non erano quelle il
mio principale problema. Lo era però la preoccupazione dei danni
psico-fisici che avrebbe potuto arrecarmi anche solo sfiorare a piedi
nudi il pavimento di una doccia condivisa da tutti i 200 ospiti della
guest house in cui alloggiavo, disseminata di capelli e peli
di dubbia provenienza a tal punto che il set di Ju-on, a confronto,
gli faceva un gran baffone a quel cubicolo germinoso.
Visto
che niente accade per caso e che l'ottimismo è il profumo della
vita, ho interpretato il fattaccio come un'occasione mandatami dal
karma per imparare a dire “ciabatte” in giapponese, e per mettere
in pratica nella vita reale gli insegnamenti di tre anni trascorsi
sui libri a memorizzare dialoghi sugli acquisti del signor Sumisu al
costosissimo mercato della frutta. Sarebbe bastato sostituire “mele”
con “ciabatte” per azzerare ogni margine d'errore. Forte della
mia convinzione di riuscire a destreggiarmi tra le insidie del verbo
nipponico in caso di necessità (ma non troppo e, difatti, le
ciabatte cadute in battaglia me l'ero comunque portate dietro), ho
sgambettato fino al supermarket più vicino e mi sono messa a frugare
tra gli scaffali. Ecco, per voi che non siete mai stati in Giappone,
c'è da precisare che cercare qualcosa in un supermarket giapponese
senza conoscere tutti i kanji relativi è un'impresa
annoverabile tra le dodici fatiche di Ercole. Così, dopo aver
vagabondato per un tempo incalcolabile tra i diecimilamiliardi di
ripiani, disposti su sette piani di edificio, ho messo da parte
l'orgoglio e ho optato per rivolgermi ad un commesso. Avevo notato
che, nel vedermi arrivare, avesse allungato il passo nella direzione
opposta, ma avevo comunque deciso di chiamarlo a gran voce perché mi
aiutasse a facilitare la ricerca.
Bene,
ora, avete presente quando siete convinti che, pur non essendo geni
in qualcosa, non potrà mai andare così male come ve la immaginate?
Invece può andare, ed è stato solo dopo che il contatto
audio-visivo col commesso era stato stabilito che me ne sono
quantomai resa conto. Chissà quale rivoltante mostro devo aver in
realtà partorito quando ho creduto di articolare la frase “mi
scusi, saprebbe dirmi dove posso trovare un paio di ciabatte?” nel
mio giapponese stentato. Perché, evidentemente, non gli avevo
chiesto quello, o non si spiegherebbe la manciata di interminabili
secondi di silenzio, susseguita dal suo timido “sumimasen,
chotto wakaranai n desu ga... (mi scusi, ma non ho capito)”. Da
lì ad un'escalation di incomprensioni il passo è stato
breve: per farmi capire meglio, ho pensato (molto male) che
mostrargli le ciabatte rotte in aggiunta ad un “doko (dove)?”
fosse una buona idea e, invece, il risultato ottenuto è stato solo
un ping pong di “mi dispiace” e di “ma Le dispiace di cosa?”
che avrebbe mandato al manicomio anche Buddha. Ma è solamente dopo
che è accaduto l'inimmaginabile: il commesso, che fino ad allora era
rimasto accovacciato sul pavimento, si è alzato di scatto, ha fatto
un grosso inchino e poi... è fuggito a gambe levate, dileguandosi in
breve tra gli scaffali, sotto ai miei occhi increduli. Immaginatevi
di aver bisogno di un paio di ciabatte e che la persona a cui state
cercando di chiedere un'informazione vi pianti senza preavviso nel
bel mezzo di un supermarket immenso, correndo più veloce di Bolt
ai Mondiali di Berlino 2009. Non so voi come avreste reagito, ma io me
ne restai immobile e sinceramente sconcertata.
Bè,
ora a distanza di qualche anno e dopo aver assistito ad altri
fuggifuggi simili (non per forza nel senso letterale del termine),
posso dire di aver trovato la mia risposta a quella reazione
spropositata. Volete sapere perché i giapponesi qualche volta se la
danno a gambe? Ebbene, la risposta è che vengono assaliti da quella
che personalmente definisco “ansia da prestazione linguistica”!
Nella società nipponica è buon costume essere gentili e cordiali
con chi non si conosce. Nel mondo lavorativo, poi, questa
condotta va rispettata con rigore, poiché non esserne capaci
potrebbe equivalere al linciaggio (in feedback, ovviamente) da
parte del cliente ed anche dell'azienda. Ma cosa succede quando la
buona volontà nell'aiutare il prossimo è ostacolata da un
insormontabile gap linguistico, il temutissimo mostro
anglosassone? Boom! Succede che partono i sudori freddi, gli
“ignorala, IGNORALA!”, i
“taci e sorridi, ma non smettere di camminare” e, nel più
estremo dei casi, quando l'ansia supera il coefficiente di
gentilezza, le fughe a gambe levate. Niente intolleranza, insomma, ma
una vera e propria crisi di panico, scatenata dal fatto di non avere
la minima idea di come gestire una situazione in cui nessuno dei due
avrebbe potuto fare progressi nell'immediato futuro. La fuga
nipponica dallo straniero, presunto anglofono a prescindere per mezzo
della sua conformazione fisica e chi se ne frega se parla
perfettamente giapponese, è legata a fattori culturali più di
quanto non si pensi. E dico fattori culturali perché sembra strano
scappare via o ignorare qualcuno quando chiede un'indicazione per
strada. Ma proviamo per un attimo a scrollarci di dosso la nostra
visione eurocentrica e a far finta di essere nati e cresciuti in un
paese dove, se non sei utile agli altri, l'etichetta ti spinge a
crederti inadeguato. Certo, solo gli scemi, nel bene o nel male,
fanno di tutta l'erba un fascio, ed è ovvio ci sia anche chi gli
occidentali li rispedirebbe al proprio paese a suon di kamehameha,
ma i miei senpai
Kazu e Masa sembravano essere assolutamente convinti del fattore
ansia. E chi meglio di un giapponese può capire cosa passi per la
testa di un giapponese?
Quindi,
cari wannabe
nihonjini, se
dovesse capitarvi di essere ignorati per strada in Giappone o
che il commesso di un negozio, percependovi in dirittura di
avvicinamento, presentasse le dimissioni, non preoccupatevi,
probabilmente non è colpa vostra! Il problema è, spesso, il loro
inglese katakana di m...olto inferiore al vostro!
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